ROMA – Non offre una prospettiva immediata, causa i tempi lunghi per la realizzazione degli impianti. Non rappresenta una soluzione definitiva, l’uranio è in via di esaurimento. Non abbatte significativamente i costi, a causa dell’importazione delle materie prime. E soprattutto dello smaltimento delle scorie. Non assicura certezze e in particolare sicurezza, in quanto gli incidenti sono imprevedibili e drammatici. Non è sostenibile, poiché rimane il problema dello stoccaggio delle scorie. Non risolve la dipendenza dall’estero perché la materia prima, l’uranio, va importata. Non è una soluzione concertata ma “italocentrica”, perché svincolata dal contesto della politica energetica europea. Non è il miglior viatico per l’occupazione, avendo un rapporto di almeno un lavoratore a dieci con altre fonti, in primis quelle “verdi”.
Al di là dell’onda emotiva suscitata dai problemi causati dal terremoto e dallo tsunami giapponesi alla centrale nucleare di Fukushima, i motivi sbandierati da chi non è convinto della scelta nucleare non mancano di certo. Condivisibili o meno, in questi drammatici giorni hanno occupato con forza il centro del dibattito energetico. Alla vigilia di un referendum i cui esiti appaiono abbastanza scontati sull’onda delle notizie provenienti dall’Asia.
Di contro, i sostenitori delle centrali presentano ben altri argomenti. Economici, innanzitutto. Principalmente i vantaggi che una scelta nucleare apporterebbe nella bilancia dei pagamenti: la produzione in proprio di energia riduce la dipendenza dagli altri. E l’importazione di petrolio. Facendo registrare, in particolare, un deficit minore nei pagamenti con l’estero. L’opzione atomo garantirebbe anche una maggiore stabilità dei sistemi nazionali, dal momento che viene ridotta la possibilità dei traumi improvvisi sull’economia, tipo le conseguenze dei conflitti nelle zone di produzione di petrolio e di gas. Ma anche – sostengono sempre i fautori – la promozione di un’energia “pulita”: una centrale nucleare non genera anidride carbonica ed ossidi di azoto e di zolfo, principali motivi del buco nell’ozono e dell’effetto serra.
Sul fronte della sicurezza, è inoltre articolato il dibattito sul miglioramento della sicurezza delle centrali nucleari dotate di reattori di ultima generazione. Al di là delle dispute concettuali, difficilmente esauribili per una materia particolarmente complessa, astrusa e ricca di tecnicismi come quella scientifica, l’eterno braccio di ferro tra le due fazioni è alimentato soprattutto dalle cronache quotidiane. Ulteriore benzina sul fuoco, ad esempio, finisce quando si ipotizzano localizzazioni di nuove centrali (e di centri di stoccaggio per le scorie): inevitabili i problemi con le popolazioni dei territori prescelti, che rifiutano la convivenza con strutture dagli esiti imprevedibili. Analogamente, il trasferimento di scorie e di materiale nucleare è un aspetto delicato per la questione sicurezza. Non a caso i treni adibiti al trasporto speciale sono scortati dalle forze di sicurezza; si tende a non farne conoscere gli itinerari, anche per evitare le contestazioni delle popolazioni residenti e degli immancabili attivisti dei movimenti ambientalisti.
A rafforzare le controversie concorrono vicende ancora più drammatiche. Anche non direttamente collegate alla questione nucleare. Un esempio è la tragedia dell’11 settembre 2001 al World Trade Center di New York, che ha consolidato i timori che le centrali nucleari possano essere prescelte come obiettivi per atti di terrorismo. Ancora più risolute le posizioni dopo le catastrofi che hanno avuto per epicentro proprio una centrale. Per oltre due decenni è stata infatti la tragedia di Cernobyl, in Ucraina, a marchiare negativamente questa fonte di energia. Un incidente la cui portata non è stato mai possibile circoscrivere con esattezza: ci sono state certamente centinaia di vittime dirette, probabilmente alcune migliaia indirette, soprattutto a causa dell’aumento rilevante di leucemie. E poi conseguenze drammatiche in tanti neonati. Mentre ricerche scientifiche dimostrano impatti ancora presenti nella flora e nella fauna dell’area interessata. A ciò si somma l’inconfutabile realtà delle scorie, che rimangono radioattive per centinaia di anni. Con sistemi per la gestione in sicurezza, in depositi geologici o ingegneristici, non proprio impeccabili. La gestione è un altro aspetto che non conforta. Specie noi italiani. C’è chi ironicamente fa osservare come potrebbe l’Italia smaltire le scorie dal momento che non riesce nemmeno a smaltire l’immondizia a Napoli. Meno sarcastico Jeremy Rifkin, che evidenzia come il disastro giapponese abbia reso evidente a tutti “la follia della scelta nucleare”.
E ricorda come gli Usa abbiano speso sedici anni e otto miliardi di dollari per costruire un fallimentare cimitero radioattivo nelle Yucca Mountains. La strada per il futuro? L’economista indica la rete diffusa di piccoli impianti basati sulle rinnovabili. Peccato che anche su questo fronte, nel nostro Paese, non manchino norme ambigue e investimenti speculativi.