Mentre in Europa i temi sulla riforma sulla PAC e le tecnologie alternative attraggono molte delle attenzioni da parte dei policy-maker, degli studiosi e dell’opinione pubblica, nel mondo ulteriori e più ambiziose sfide catturano il dibattito legato alle tematiche ambientali. Fra queste, considerando che il 2011 è stato eletto dall’ONU quale anno delle foreste, si vogliono di seguito accennare ai contenuti del progetto internazionale REDD+ , ovvero “Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation”.
Nel Dicembre 2007, alla Conferenza Internazionale sul Clima di Bali è stato istituito un meccanismo di compensazione delle nazioni volto alla riduzione delle emissioni di carbonio derivanti dalla deforestazione e degrado, ovvero il “Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation”, anche detto REDD+ +. Nel tempo, come nelle successive Conferenze Internazionali di Copenaghen del 2009, la sensibilità e gli interessi delle politiche volte a evitare la deforestazione e degrado forestale è cresciuta e le prove scientifiche hanno dimostrato che è pressoché impossibile stabilizzare le emissioni serra senza ridurre le emissioni da deforestazione e il degrado forestale. Alla base del REDD+ c’è quindi l’idea di aumentare il sequestro di carbonio atmosferico proteggendo le foreste, attraverso un sistema di incentivi che renda “conveniente” mantenere le foreste intatte, ovvero impiantarne di nuove, invece che buttarle giù.
La protezione delle foreste è una misura cruciale per contrastare il cambiamento climatico, dato che un quinto delle emissioni di carbonio sono dovute alla deforestazione. Inoltre aiuta a preservare la biodiversità, il suolo dall’erosione e le riserve di acqua dolce. Tuttavia, permangono notevoli ostacoli alla riuscita dell’iniziativa, derivanti essenzialmente dal permanente forte tasso di deforestazione. Infatti, la domanda mondiale di legname, di olio di palma, zucchero, soia e carne di manzo, nonché la necessità di alimentare tre miliardi di persone entro la metà del secolo, continuerà a produrre pressione antropica sulle foreste, erodendole significativamente. La sfida, pertanto, appare alquanto rischiosa, in quanto, prima di tutto, la distruzione delle foreste tropicali potrebbe incrementare significativamente le emissioni globali di gas a effetto serra, aumentando la temperatura dell’atmosfera, con conseguenze tragiche per molti ecosistemi.
In secondo luogo, le foreste costituiscono una rete di sicurezza per alcune delle persone più povere del mondo, pari ad un miliardo circa, le quali dipendono direttamente o indirettamente dalle foreste per la propria sussistenza. La foresta del bacino del Congo, ad esempio, la seconda più grande foresta pluviale del mondo, con una copertura stimata di 200 milioni di ettari, fornisce cibo, riparo e sostentamento a oltre 50 milioni di persone. Pertanto, la deforestazione su larga scala nel bacino del Congo potrebbe influenzare la produzione agricola in vaste zone dell’Africa a sud del Sahara. Non da ultimo, le foreste tropicali contengono la metà delle specie terrestri del mondo, concentrandole su solo il 7% della superficie globale; la biodiversità è il capitale naturale per lo sviluppo sostenibile.
Secondo le stime in Economia degli Ecosistemi e della Biodiversità (TEEB), il costo misurabile della perdita di biodiversità è stimato tra 1,5 e 5 trilioni di Euro per anno. In confronto, la somma totale di tutti i pacchetti finanziari approvati dai governi di tutto il mondo per mitigare le crisi finanziarie del secolo scorso, pari a 3 trillioni di Euro all’anno, ripropone il tema della consapevolezza del valore della natura per la società, da tradursi in priorità politica e modello di sviluppo economico. Conseguentemente, oggi, a livello globale, circa 17.000 specie vegetali e animali sono in via di estinzione, con danni irreversibili e permanenti per la stessa umanità. In tale ambito, la perdita di biodiversità nella nostra epoca può essere paragonato ad estinzioni di massa avvenute nelle ere precedenti, ma questa volta sono gli esseri umani ad esserne responsabili. Inoltre, il degrado degli ecosistemi, combinato con il cambiamento climatico, può portare alla rottura dei cosiddetti ‘punti critici’, ovvero i punti di non ritorno, forieri di effetti a catena tipo domino incontrollabili.
Un caso fra questi è quello del rilascio di enormi quantità di metano dovuto allo scioglimento della tundra siberiana, che potrebbe generare sviluppi negativi fuori da ogni controllo umano. Così come, secondo il Global Biodiversity Outlook 3, una perdita del 20-30% del patrimonio forestale in Amazzonia combinato con una media di due gradi in aumento della temperatura, potrebbe comportare la scomparsa della foresta pluviale amazzonica. Sullo sfondo, tuttavia, qualcosa sta cambiando.
Al recenti negoziati ONU sul cambiamento climatico di Cancún, Messico, tenutosi nel dicembre 2010, la comunità internazionale ha concordato un quadro congiunto per rallentare, fermare e invertire le emissioni da foreste nei paesi in via di sviluppo. Anche se molti dettagli devono ancora essere confermati, tale accordo ha registrato un grande passo in avanti. L’accordo prevede inoltre nche garanzie a tutela dei diritti delle popolazioni indigene, la partecipazione di tutte le parti interessate e la tutela della biodiversità.
Anche nell’ultima riunione della Conferenza sulla Diversità Biologica (CBD) tenutasi a Nagoya, in Giappone, nel mese di ottobre 2010, è stato riconosciuto da 192 paesi e dall’UE che il cambiamento climatico avrà un impatto negativo sulla biodiversità. È stato, pertanto, deciso che gli sforzi internazionali per ridurre la perdita di biodiversità e cambiamento climatico dovrebbero essere più strettamente collegati e congiunti. Malgrado ciò, come molti hanno sottolineato, persistono ancora chiaramente criticità inerenti l’approccio business-as-usual, ovvero non innovativo, così come non sarà semplice incrementare il livello di governance delle foreste da parte dei Paesi interessati, introducendo al loro interno criteri di efficacia e di sostenibilità nella gestione delle stesse. In ogni caso, l’iniziativa REDD+ ha già catalizzato un ampio bacino di Paesi come il Brasile, l’Indonesia, la Guyana e la Repubblica Democratica del Congo, che si sono mostrati pronti ad impegnarsi. Alcuni risultati sono stati già colti nell’Amazzonia brasiliana che ha registrato nel 2010 un tasso di deforestazione inferiore del 70% rispetto al decennio 1996 -2005, con una riduzione di 850 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica.
Anche l’Indonesia, il terzo più grande emettitore di anidride carbonica del mondo dopo Stati Uniti e Cina, si è impegnata a ridurre le emissioni del 26% attingendo a fondi propri e del 41% con l’assistenza internazionale. Infatti, quasi l’80% delle emissioni in Indonesia sono causate dalla deforestazione e dalla conversione delle torbiere. Se l’ Indonesia riuscisse a centrare tale sfida entro il 2020, si eviterebbe l’emissione di un miliardo di tonnellate di carbonio. Per concludere, per proseguire sulla strada del successo, ad oggi, oltre ad una rete di finanziamenti da parte dei soggetti Istituzionali (Paesi, Banche per lo Sviluppo, Agenzie ONU..), è necessario coordinare maggiormente una politica istituzionale, volta a declinare i concetti del REDD+ nei vari contesti locali contribuendo, al contempo, allo sviluppo sociale ed economico dei Paesi aderenti all’iniziativa. Infine, occorre prevenire i possibili effetti discorsivi e potenzialmente dannosi dei REDD+ collegati, per lo più, al consolidamento da parte dei Paesi Industrializzati e più Sviluppati di pratiche legate all’emissione di anidride carbonica compensata acquistando crediti in carbonio, in luogo di sviluppare innovazione e tecnologie a basso impatto, o nullo.
Inoltre, occorrerà prevedere ad un monitoraggio volto alla tutela delle aree forestali pluviali, con eco-equilibri notoriamente instabili, rispetto a possibili introduzioni di specie non autoctone ed invasive, magari anche a scopo industriale (carta, legno). Infine, uno sforzo particolare intenso andrà destinato alla adesione massiva all’iniziativa da parte di un numero di Paesi quanto più ampio e diffuso del pianeta, per evitare un’eccessiva concentrazione fra i soli Paesi più pronti, anche amministrativamente, ad implementare tali misure (Brasile, Indonesia).