ROMA – Da due secoli abbiamo sviluppato una civiltà materiale e una potenza produttiva mai prima conosciute. Questa civiltà si scontra oggi con i limiti al suo sviluppo: sono i limiti del pianeta stesso messo al servizio della nostra frenesia consumistica. Il pianeta è in pericolo e gli scenari più pessimistici sembrano superati da processi irreversibili di distruzione dell’ambiente.

L’emergenza ecologica esige trasformazioni radicali dei nostri modi di vita, ma questi mutamenti non possono concepirsi che in un nuovo rapporto con il tempo. Reintrodurre la vicinanza e la lentezza nei processi di produzione e di consumo, ridurre i tempi di lavoro, riapprendere a occuparci dei nostri familiari e dei nostri amici, disalienarci dalla nostra con­dizione di lavoratori e consumatori forsennati… queste sono le poste in gioco essenziali. Bisogna trasformare i nostri ritmi sociali per ritrovare il tempo di vivere.

Serge Latouche (Vannes 1940), professore di economia all’Università di Paris Sud-Orsay, si dichiara da tempo un obiettore di crescita. La “decrescita” è un suo parto. Con il volume “Il tempo della decrescita”, appena uscito, l’indagine va avanti. “Nella città in decrescita gli abitanti ritroveranno il piacere della flânerie, caro a Charles Baudelaire e a Walter Benjamin – scrive Latouche. L’obiettivo di “elevare” tutti gli esseri umani al tenore di vita occidentale è materialmente irrealizzabile: non c’è abbastanza terra, risorse, energia, aria, non basterebbe il pianeta Terra (ce ne vorrebbero già ora 5). Eppure… Eppure, i sacerdoti di questa fede, gli ‘esperti’ di turno, ci spiegano che ogni fallimento in questa direzione (finanziario, nucleare, ambientale…) è solo l’occasione di nuove dilazioni. All’infinito. Dobbiamo avere fede, credere, e fare ‘come se’. No, sostiene Latouche, “non possiamo più riprodurre all’infinito il nostro modello di consumo e di produzione ‘facendo come sé l’inquinamento di ogni genere non fosse che una proiezione mentale e lo sconvolgimento climatico uno spot elettorale. Non possiamo continuare a produrre aerei, automobili, centrali nucleari, ‘facendo come se’ le riserve di petrolio e di uranio fossero inesauribili. Non possiamo credere ciecamente nella tecnoscienza, ‘facendo come se” i ricercatori potessero prima o poi a trovare, al riparo dai giochi politici ed economici, soluzioni miracolose e senza rischi davanti a problemi sempre più complessi.

Non possiamo più venerare la santa crescita ‘facendo come sé grazie a lei scomparissero una volta per tutte la disoccupazione, la precarietà, le disuguaglianze. Non possiamo più continuare ad arricchirci, noi, popoli del Nord, “facendo come se” i popoli del Sud riuscissero a seguire le nostre orme mentre si allarga il gap tra noi e loro e il Nord si arricchisce a spese del Sud, approfittando soprattutto del rimborso del debito”. Intanto, scompaiono centinaia di specie vegetali e animali al giorno, mangiamo pesticidi e antibiotici, le città sono pentole a pressione gassosa, siamo sempre più sterili, il produttivismo agricolo e artificioso strema le risorse naturali, l’impronta ecologica è per lo più insopportabile… E se la crescita fosse il problema, non la soluzione? Latouche indaga, commenta e riporta teorie e fatti, spiegazioni e soluzioni: biodistretti, bioregioni, comunità di città e città di villaggi che hanno scelto di ritrovare il senso della misura e una impronta ecologica sostenibile, la scelta di una de-crescita pilotata e non subita (destino fatale alle porte, altrimenti), l’educazione alimentare slow, bio e a chilometri zero l’affrancarsi dalla società dell’orologio e del consumo per abbracciare quella del tempo di qualità e della qualità della vita, decolonizzare l’immaginario collettivo e personale dall’economicismo e dal consumismo, recuperare il senso del locale, il legame profondo con la terra e i luoghi, coltivare il futuro, non dimenticare mai i limiti fisici, il valore dell’acqua, della terra, del clima, delle api, della biodiversità…

Si può fare, e senza tornare all’età della pietra. Si deve fare, per evitare i tre gradini verso il collasso: 2020, crisi delle risorse non rinnovabili; 2040, crisi dell’inquinamento; 2070, crisi alimentare. “Si può essere preoccupati per la profondità degli sconvolgimenti preannunciati dalla decrescita, perché essa comporta una rottura con le nostre abitudini e i nostri comportamenti. Grazie alle pratiche innovatrici che propone, però, noi possiamo costruire il progetto di una vera solidarietà con le generazioni future e prospettare per l’umanità un futuro più sereno”.

Latouche, Harpagès, “Il tempo della decrescita”, prefazione di Marco Aime, traduzione di Guido Lagomarsino, 112 pagine, Edizioni Eleuthera, 2011, € 10,00.