Nell’anno che sarà il più caldo di sempre, e il primo a superare gli 1,5 gradi Celsius di aumento della temperatura media globale rispetto all’era preindustriale (1850-1900), i leader dell’intera comunità internazionale tornano a incontrarsi.

L’Accordo di Parigi sul clima chiede agli stati di fare tutto il possibile per non superare la soglia di 1,5°C rispetto all’epoca preindustriale. La realtà che stiamo vivendo, però, è diversa. Copernicus, il servizio europeo di monitoraggio dei cambiamenti climatici, fa sapere che ben quindici degli ultimi sedici mesi hanno visto la temperatura media globale sfondare il tetto del grado e mezzo. È la prima volta da quando esistono queste misurazioni.

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) esiste ancora uno spiraglio per centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi, ma richiede un impegno drasticamente superiore a quello attuale. Sempre l’Accordo di Parigi chiede agli stati di presentare periodicamente le proprie promesse di riduzione delle emissioni. Quelle in vigore porterebbero la temperatura media globale a crescere di almeno 2,6 gradi nel corso di questo secolo, con il rischio di arrivare a 3,1 gradiQuando le dovranno aggiornare, all’inizio del 2025, i governi dovranno essere ben più coraggiosi. Per centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi serve una riduzione complessiva delle emissioni pari al 42 per cento entro il 2030 e al 57 per cento entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019.

Il primo scoglio, l’Azerbaigian

La Cop29 è ospitata da un paese che impernia la propria economia sui combustibili fossili. Le riserve di petrolio e gas naturale dell’Azerbaigian sono ingenti: l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) le calcola rispettivamente in 7 miliardi di barili (a terra e nel mar Caspio) e 2.500 miliardi di metri cubi. Sono stati proprio gli introiti degli idrocarburi a permettere allo stato, divenuto indipendente nel 1991, di decuplicare il proprio prodotto interno lordo pro capite tra il 2000 e il 2014. Ancora oggi, i sussidi pubblici continuano a focalizzarsi sulle fonti fossili: si spiega così il fatto che le rinnovabili producano uno striminzito 1,5 per cento dell’energia. In sostanza, il paese che ospita la Cop29 è impreparato alla transizione energetica. In termini sia economici, sia infrastrutturali. Basti pensare che, senza petrolio e gas, l’Azerbaigian vedrebbe svanire il 95 per cento dell’attuale valore delle sue esportazioni.

Il nuovo obiettivo globale per la finanza climatica

Alla Cop29 di Baku i negoziatori avranno un obiettivo preciso. Si chiama Ncqgnew collective quantified goal (nuovo obiettivo quantificato collettivo). Alla vigilia dell’inizio, i nodi da sciogliere sono ancora tanti e tutt’altro che banali. A cominciare dalla cifra che dovrà rispecchiare le necessità e le priorità dei paesi in via di sviluppo. Sono stati condotti tanti calcoli, con risultati molto diversi tra loro, ma verosimilmente l’ordine di grandezza dovrà crescere di almeno dieci volte rispetto a quello attuale. Si dovrà parlare di migliaia di miliardi (trillions in inglese), non più di miliardi: è questo lo spartiacque.

Bisognerà poi decidere chi dovrà stanziare questi soldi e quanto tempo avranno a disposizione gli stati per raggiungerla: ai tempi della Cop15 erano i ventiquattro paesi che erano membri dell’Ocse nel 1992, ma da allora gli equilibri dell’economia mondiale sono cambiati parecchio. Stabilire l’entità dei fondi è il punto di partenza, ma poi bisogna anche fare in modo che l’accesso sia rapido, semplice e che non faccia accumulare altro debito estero a economie che sono già molto vulnerabili.

Il fondo per il loss and damage

Come si potranno spendere questi fondi? Di sicuro i paesi beneficiari li potranno investire in misure di mitigazione delle emissioni e di adattamento del territorio all’impatto della crisi climatica. Resta ancora un punto di domanda il loss and damage, cioè quel meccanismo finanziario volto a risarcire i paesi più vulnerabili per le perdite e i danni che subiranno in ogni caso per via della crisi climatica. L’impegno è stato annunciato alle battute conclusive della Cop27 di Sharm el-Sheik, per poi essere confermato nel primo giorno dei negoziati della Cop28 di Dubai.

Transizione energetica

A che punto siamo? Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, nel corso di questo decennio la crescita della capacità globale delle energie rinnovabili sarà impetuosa. Si parla di un incremento di 5.500 gigawatt (GW): è come aggiungere l’intera capacità energetica di Cina, Unione europea, India e Stati Uniti messi assieme. Entro il 2030, la metà dell’elettricità a livello globale sarà generata dalle fonti pulite. Soprattutto dal fotovoltaico. Dominatrice indiscussa del mercato delle rinnovabili è la Cina che, da sola, contribuirà quasi al 60 per cento delle installazioni nel corso del decennio.

Gli Stati Uniti, da parte loro, durante l’amministrazione di Joe Biden hanno investito risorse nelle energie rinnovabili con un impeto mai visto prima. Ma contestualmente sono anche saliti in cima alla graduatoria dei produttori di petrolio, sfiorando i 14 milioni di barili al giorno. Ed è proprio qui il grande tema. L’aumento della produzione di energia pulita è una buona notizia, ma il vero obiettivo è il calo delle emissioni. E per ottenerlo bisogna smettere di bruciare combustibili fossili, e farlo in fretta. Altrimenti saranno proprio carbone, petrolio e gas a farci esaurire ben presto il nostro carbon budget. E nulla potranno fare le rinnovabili per evitarlo.

La Cop29 si svolge proprio nelle ultime settimane prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il cui legame con l’industria dei combustibili fossili è acclarato. Sarà l’Unione europea, reduce dalle elezioni che hanno rinnovato Parlamento e – indirettamente – Commissione, ad assumersi quel ruolo di leadership che l’amministrazione repubblicana difficilmente vorrà avere? Ci vorrà ancora tempo per capirlo, ma questa Cop29 potrà far trapelare qualche indizio.

Quel che è certo è che, al di là degli orientamenti politici, è il mercato a chiedere la transizione ecologica. Un percorso che le industrie hanno già avviato, mettendolo al centro della propria strategia di crescita per i prossimi decenni. Lo dimostra la lettera aperta pubblicata alla vigilia della Cop29 dalla Alliance of ceo climate leaders, che riunisce i dirigenti di aziende che insieme fatturano 4mila miliardi di dollari l’anno e danno lavoro a 12 milioni di persone. Le richieste, a guardarle bene, non sono troppo diverse da quelle avanzate dalle ong ambientaliste: fare promesse di riduzione delle emissioni ambiziose e credibili, incrementare (e di molto) i flussi finanziari per il clima, rimuovere gli ostacoli alla transizione energetica, puntare sulle nuove tecnologie.

Cosa aspettarsi dalla Cop29

Fare presto. Leggendo i rapporti scientifici o gli appelli delle aziende, è sempre questa l’esortazione che traspare: fare presto. Non è detto che ci si riesca. La Cop16 sulla biodiversità che si è appena chiusa a Cali, in Colombia, ne è un esempio. Nel bel mezzo di una crisi conclamata, che ha visto – tra le altre cose – crollare del 73 per cento l’abbondanza delle popolazioni di vertebrati selvatici in cinquant’anni, i delegati hanno preso tempo. Rinviando ancora una volta iniziative che sarebbero state dirimenti, a partire dall’istituzione di un Fondo per la biodiversità. Ed è vero che qualsiasi iter negoziale segue delle logiche che sono fatte anche di tecnicismi, tentativi, compromessi. Ma è vero anche che sul clima non c’è più niente da scoprire, perché la scienza ci ha già detto tutto. Sappiamo qual è il problema (l’aumento delle emissioni) e qual è la soluzione (smettere di bruciare combustibili fossili). La scienza ha fatto la sua parte, una parte del mondo industriale anche, la società civile è sempre più consapevole. La politica deve chiudere il cerchio.