Dai dati provvisori del censimento ISTAT Agricoltura del 2010, risulta che sono andati persi ben 173.000 addetti su meno di 400.000, nel Lazio.

Le prime proiezioni provvisorie ISTAT sullo stato dell’Agricoltura del Lazio confermano il preoccupante trend in quanto a vitalità aziendale e capacità occupazionale. Dai dati provvisori del censimento ISTAT Agricoltura del 2010, risulta che sono andati persi ben 173.000 addetti su meno di 400.000, nel Lazio.

Nell’ultimo decennio, quindi, sembra chiaro che, a fronte di una riduzione di quasi il 50% del numero di aziende e degli occupati, la superficie agricola utilizzata (SAU) sia diminuita di “solo” il 10% circa, descrivendo uno scenario dove il primario tende a concentrarsi, occupando più superficie che occupati, senza però ritrarre maggiore ricchezza da tale processo, con una perdita reddituale di circa il 40%, come certificato anche dall’Eurostat.

In sintesi, negli ultimi 10 anni l’agricoltura laziale non si è quindi avvantaggiata delle possibili economie di scala né in termini reddituali, probabilmente per molteplici motivi, fra i quali possiamo annoverare:

* La dinamica dei costi di produzione crescente, opposta a quella decrescente dei prezzi dei prodotti, con una significativa erosione del reddito;

* La destinazione a colture “non produttive” delle superfici (c.d. “disattivate), detenute solo allo scopo di percepirne i premi previsti dalla PAC (titoli, indennità compensative…);

* L’introduzione dei Voucher INPS per i lavori stagionali;

* Il ricorso a colture estensive a basso impiego di manodopera (cerali, foraggere);

* Fenomeni di lavoro nero e di economia sommersa, tipica peraltro della struttura famigliare caratteristica del comparto, che sfuggono alle maglie della statistica; in ogni caso appare chiaro che il “malato è grave” e che tutte le cure sinora tentate, comprese quelle dei mercati di nicchia, della qualità e della pluriattività, in termini occupazionali e reddituali hanno funzionato poco e male.

Se, quindi, si intende recuperare il valore occupazionale del settore primario, occorre anzitutto recuperarne la capacità reddituale, riavviando il circolo virtuoso reddito- investimenti- lavoro.

Infatti, l’agricoltura come soggetto multifunzionale in grado di produrre beni di consumo e servizi socio-ambientali, può fungere da motore occupazionale solo in presenza una forte capacità reddituale autonoma. Ovviamente, in periodi di crisi di consumi e di forte riduzione di sostegno pubblico dedicato al settore, risulta difficile parlare di redditività, ma senza dubbio, quella della competizione e dell’innovazione appare l’unica strada percorribile per un settore che abbia voglia di sopravvivere alla congiuntura negativa.

Per recuperare reddito, quindi, la strada maestra appare sempre più quella del recupero di valore all’interno della filiera, diminuendo quanto più possibile lo spazio fra produttore e consumatore. Tuttavia, per accedere al mercato di sbocco per beni e servizi, realizzando gli investimenti necessari, occorre anzitutto accedere al mercato del credito, condizione piuttosto complicata per un settore a bassa redditività, ma ad alta patrimonializzazione.

Infatti, la legge Amato (legge di delega n. 218 del 30 luglio 1990) e i relativi decreti applicativi relativi alla “de-specializzazione” del credito, hanno profondamente inciso sulla capacità di accedere al mercato finanziario da parte delle aziende agricole che, tradizionalmente, hanno nel capitale fondiario il valore economico più rilevante e strategico per la propria attività.

In tal senso, del resto, il recente ddl relativo al contrasto al consumo del suolo si muove verso l’auspicata direzione di contrasto alla speculazione delle solite lobby del cemento che, manovrando opportunamente strumenti urbanistici ed uffici tecnici compiacenti in seno all’amministrazione, tendono a svalutare il valore dei terreni agricoli per poi trasformarli in capitali privati da destinare al mercati degli immobili.

Quello di cui ancora si sente chiaramente la mancanza, quindi, è uno strumento di natura urbanistica in grado di privilegiare le esigenze dei veri attori del territorio, ovvero gli imprenditori agricoli, a cui destinare corsie preferenziali dedicate agli strumenti previsti dalla L.R. 38/99 (es PUA, PAMA), sino a prevedere incrementi di indici di cubature per gli annessi agricoli finalizzati alla realizzazione di nuovi investimenti produttivi. Quindi, la corretta valorizzazione del capitale fondiario appare come una delle principali vie necessarie per favorire l’accesso al mercato del credito, e quindi per realizzare investimenti e rilanciare l’occupazione.

Sempre in chiave occupazionale, molto altro del resto è ancora possibile realizzare in chiave di “buona governance a costo zero”, sprigionando quelle risorse ancora inespresse a tutti i livelli amministrativi, quali, ad esempio:

* A livello di Regione: l’integrazione della L.R. 14/2006 a favore dell’Ittiturismo e dell’Agricoltura Sociale e Didattica;

* A livello di Provincia: il potenziamento della vigilanza sugli Agriturismi;

* A livello di Comune: lo sviluppo e l’avvio dei c.d. “farmer market”;

* A livello di Istituti Pubblici Regionali: la promozione delle produzioni tipiche e del marketing territoriale.

Non da ultimo, vista la grande diffusione delle terre collettive del Lazio, pari a ben il 27% circa dell’intera estensione superficiale regionale, si auspica una maggiore opera di “disclosure” dei soggetti proposte al loro governo (Enti, Università Agrarie…) a progetti di interesse più orizzontale, come ad esempio quelli offerti dalle filiere delle biomasse, che potrebbero fungere da volano esemplare in termini occupazionali e di ridistribuzione di ricchezza sul territorio.

Del resto, è pur vero anche che solo un territorio governato e presidiato non offre il fianco a fenomeni di degrado sociale e di malaffare, come pure osservato in tante altre realtà nazionali. Una sussidiarietà competitiva, quindi, che trovi nel buon governo dell’amministrazione regionale un fattore di successo e di supporto all’interno delle sfide che il settore affronta quotidianamente.

Ultima menzione, infine, va destinata agli attori privati della filiera, ovvero gli imprenditori agricoli ed i distributori. Ai primi, infatti, si richiede una “rivoluzione culturale” per evolvere da semplici produttori ad imprenditori attivi e aggregati in forme compartecipative sul mercato dei beni e dei servizi, quest’ultimi assai più appetiti delle società moderne che i primi. In un regime di prezzi e di costi dettati da dinamiche internazionali, infatti, solo una filiera corta e ben organizzata in termini di quantità e standardizzazione delle forniture garantisce un maggior valore aggiunto e, quindi, una maggiore capacità di investimento, a favore dei “pionieri” della filiera stessa.

Alla distribuzione, invece, si chiede un maggior rispetto dei patti, evitando posizioni di dominanza nei confronti di un settore, da sempre, contraddistinto dalla frammentazione e dalla scarsa cooperazione. In tal senso la recente entrata in vigore dell’art. 62 della L. 27/2012 sembra andare nell’auspicata direzione della tempistica certa, ponendo un freno alle pratiche sleali e vessatorie, divenute ormai ordinarie fra grossisti e distributori. Al termine di questa breve riflessione, rimane comunque sullo sfondo l’emergenza di un settore alla cui emorragia occorre porre urgente rimedio. Grandi sono infatti le potenzialità produttive, ma soprattutto ricreative di un comparto, che, non dimentichiamolo, ospita una delle più grandi collettività nazionali, ovvero il bacino dell’isola metropolitana di Roma, da sempre forte catalizzatore di domanda di beni e servizi, nonché grande attrattore di turismo. Un mercato importante, quindi, al quale rivolgersi puntando sulle proprie peculiarità e tradizioni storio-eno-gastronomiche, monetizzando e valorizzando, anche in termini patrimoniali, la fruizione di beni pubblici da parte di una collettività, nazionale ed internazionale, sempre più alla ricerca di servizi evoluti. Solo restituendo, pertanto, la capacità reddituale agli attori del territorio, sarà quindi possibile tradurre il capitale economico del settore in capitale sociale ed occupazionale. Quello che si chiede, quindi è uno sforzo di sintesi da parte di tutti gli attori, pubblici e privati, al fine di raccogliere alcune proposte pratiche e concrete, in grado di contribuire a trarre fuori il settore, ed il territorio che governa, fuori dalle secche nelle quali si trova da troppi anni.