ROMA – Esce in questi giorni in libreria “Il tempo della decrescita” (Elèuthera editrice), l’ultimo lavoro del filosofo ed economista Serge Latouche (professore emerito all’università di Paris XI), scritto con Didier Harpages, professore di scienze economiche e sociali in un liceo di Parigi. Un libretto agile, che supera di poco un centinaio di pagine, ma ricchissimo di spunti per rispondere ad una domanda essenziale: dove stiamo andando?

Stili di vita ormai sfuggiti di mano, secondo gli autori, esigono trasformazioni radicali da compiersi in un nuovo rapporto con il tempo. Occorrerebbe, in sostanza, eliminare il termine “forsennato” dal nostro vocabolario, recuperando il piacere della vicinanza e della lentezza nei processi di produzione e di consumo. Una “disalienazione” globale per ritrovare il tempo di vivere.

La “decrescita” è il cavallo di battaglia di monsieur Latouche, sebbene il termine sia stato coniato dall’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen nel 1979 (geniale la sua parabola della “sindrome circolare del rasoio elettrico”, secondo cui ci si rade più in fretta per avere il tempo di progettare un rasoio che rada più in fretta, e così via”).

Da allora la “scomoda” filosofia degli “obiettori della crescita” fa proseliti. In sostanza, se per almeno due secoli la macchina della produzione ha spinto ininterrottamente sull’acceleratore, oggi questa civiltà si scontra con i limiti al suo sviluppo, rappresentati paradossalmente dai limiti del pianeta stesso.

“L’agricoltura produttivista, orgoglio dei nostri uomini politici, è guidata soprattutto dalla preoccupazione della redditività. La monocoltura, le manipolazioni genetiche, la brevettibilità del vivente al servizio degli interessi delle multinazionali dell’agribusiness ne rappresentano gli aspetti più viventi. Risultato: nel corso dell’ultimo secolo, secondo la Fao, sono andati perduti circa i tre quarti delle diversità genetiche delle colture – scrivono gli autori. “Il tempo della decrescita” s’interroga sull’invenzione dell’orologio, avvenuta intorno all’anno mille su iniziativa di Papa Silvestro II (non a caso sospettato di stregoneria), punto di partenza dei tempi moderni, sul fatto che il credito abbia sconvolto la percezione e la gestione del nostro tempo, sui tanti paradossi della contemporaneità, come l’amara realtà che la velocità media di un automobilista – imbottigliato ore ogni giorno nel traffico – è di sei chilometri all’ora, all’incirca quella di un pedone o come i 9.115 chilometri percorsi da un vasetto di yogurt per arrivare su una tavola.

“Rifiuto del produttivismo, riterritorializzazione dell’attività e proprietà dei circuiti a breve raggio restituiscono alle persone una prevalenza su quelle macchine superpotenti, fortemente inquinanti, la cui energia è entrata con tutto il suo peso in concorrenza con il lavoro umano. Questa nuova prospettiva apre a una critica della crescita ossessiva dei rendimenti agricoli e, più in generale, degli aumenti di produttività. Notiamo per inciso che quei rendimenti in realtà da vari decenni sono in calo, a causa dell’esaurimento dei terreni legato all’uso eccessivo di fertilizzanti chimici che distruggono la materia organica del suolo – incalzano gli autori.