Verso la fine delle quote latte. Il regime protetto andrà in pensione con il prossimo 1° aprile 2015. E nel settore qualche preoccupazione c’è. Ecco una serie di pareri.

Il professor Daniele Rama, curatore dell’Osservatorio Latte dell’Università Cattolica, offre un’approfondita panoramica della materia: ““Con il 1° aprile 2015 le quote latte non esisteranno più e si tratterà di capire cosa succederà e come reagirà il mercato. Ragioniamo un po’ su scenari ipotetici e, indubbiamente, alcuni Paesi e produttori saranno avvantaggiati dalla liberalizzazione, altri meno. Chi potrebbe avere il massimo vantaggio dal pensionamento delle quote sono i Paesi Bassi.

Si prevede che l’Olanda aumenterà la propria produzione di latte, anche di un 15% fra il 2015 e il 2020-2022. Si trovano in una situazione ottimale per il libero mercato, in quanto sono efficienti come dimensioni e imprenditorialità, ma hanno ulteriori margini di efficienza in chiave di crescita”.

E l’Italia? Non si scoraggino gli allevatori italiani. “Secondo le previsioni basate sui modelli economici attuali, l’Italia dovrebbe avere un aumento in linea con il trend comunitario, dell’ordine del 5-5,5 per cento. Dunque, in uno scenario che con ogni probabilità vedrà crescere i volumi di latte prodotto in tutta Europa e di conseguenza fletterà in chiave di prezzo, l’Italia resisterà meglio. Sì, una flessione del prezzo potrebbe esserci per effetto di un aumento delle produzioni, ma nel complesso gli allevatori italiani devono stare tranquilli”.

Il paracadute che proteggerà l’Italia dal calo dei listini (che ci sarà, inevitabilmente, con queste premesse) è rappresentato dal formaggio. “Trasformiamo circa il 40-45% del latte in formaggio – continua Rama – più del doppio della media dell’Unione europea, che si aggira intorno al 20 per cento. E il comparto caseario sarà meno toccato dagli effetti delle liberalizzazione, anche grazie all’importanza delle Dop, in special modo Parmigiano reggiano e Grana padano”.

Ad ulteriore conferma che l’abolizione delle quote va nella direzione giusta, il professor Rama tratteggia l’essenza delle quote: “Costituiscono un costo, perché vediamo che mediamente ogni anno il 10% della quota nazionale passa di mano, attraverso compravendite o affitti. Questo significa che chi produce deve sostenere un costo rilevante, che spesso in caso di vendita, va a benefici di chi magari cessa l’attività”. In altre parole, sono soldi investiti dagli allevatori, ma che di fatto escono dal circuito produttivo. In uno scenario come quello delineato, i produttori italiani – e in modo particolare della Pianura padana – dovranno sfruttare al meglio tutte le opportunità offerte dal Pacchetto Latte, andando oltre l’aspetto legato all’autodisciplina delle produzioni. “La programmazione produttiva è molto importante per il settore – osserva Rama – ma nell’immediato non credo che cambierà molto”.

Prima di ottobre, infatti, i consorzi non avevano la possibilità di stabilire le produzioni, ma di fatto in parte avveniva con la contribuzione differenziata o con altre forme simili. “Piuttosto, il Pacchetto Latte offre una opportunità per ripensare il ruolo dei consorzi di tutela e dare più spazio alle singole aziende, all’etichetta dell’impresa privata, che dovranno affiancare il marchio consortile – continua Rama.

“Questa sarà una strategia per uscire dalla banalizzazione in cui spesso sono finiti alcuni prodotti Dop, costantemente standardizzati in perenne promozione sugli scaffali della grande distribuzione”. Emergono sorprese, invece, su un’altra misura del Pacchetto Latte, ovvero l’obbligo del contratto scritto nel conferimento del latte. I risultati non sono ancora definitivi, ma dall’attività accademica dell’Osservatorio sui mercati zootecnici dell’Università Cattolica – per ora concentrati sulla provincia di Cremona, ma destinati a comprendere la Lombardia – è emerso che “nella componente dei conferenti di latte verso i privati c’è una quota di aziende senza contratto scritto molto più alta di quanto ci aspettassimo. Siamo nell’ordine del 15-18 per cento. Questo significa che le indicazioni del Pacchetto Latte ci stanno tutte”.

Germano Pè, presidente dell’Associazione lombarda degli allevatori, conferma i timori: “Capire come sarà il futuro oggi è molto difficile, in quanto la situazione è parecchio complessa e variegata. Il mercato è dato dalla domanda e dall’offerta, pertanto se l’offerta è superiore alla domanda potrebbe esserci una flessione dei prezzi. Inoltre, quanto è accaduto in Italia sul fronte delle quote latte ha una sola certezza e cioè che non è colpa degli allevatori. Per il futuro dopo le quote auspico che si trovi una formula di monitoraggio dell’autogestione, per accompagnare gradualmente alla fase di liberalizzazione completa. Prima di abolire del tutto le quote è bene capire come reagirà il mercato”. Pietro Laterza, presidente Anarb: “Con molta onestà devo ammettere che un certo timore ce l’ho, riguardo alla fine delle quote. L’Italia è un Paese importatore di latte, con costi di produzione superiori rispetto ad altri Paesi, quindi il rischio è che aumentino ulteriormente l’import. Abbiamo come arma di difesa le Dop casearie, che differenziano le produzioni italiane per qualità e storia. L’etichettatura e la tracciabilità sono premesse rilevanti, però, per caratterizzare la produzione italiana anche a livello lattiero”.

Davide Lorenzi, vicepresidente Anga Lombardia: “Sono favorevole ad un sistema di tracciabilità ed etichettatura del latte, in modo da conoscere la provenienza. Non credo neanche ad un boom di produzione nell’area padana. Fra i paletti che limiteranno la crescita della produzione lattiera vanno infatti considerati i nitrati e i costi della razione alimentare. Inoltre, accanto a queste due variabili che andranno a frenare l’aumento produttivo, bisognerà tenere presenti gli adeguamenti sul benessere animale, che distoglieranno investimenti da altre voci, come il miglioramento genetico. Preso atto che la liberalizzazione è irreversibile, gli allevatori dovranno utilizzare come paracadute contro l’ipotizzata diminuzione dei prezzi le opportunità offerte dalla programmazione produttiva”.

Giorgio Setti, caporedattore dell’Informatore Zootecnico – Gruppo 24 Ore: “Bisogna stare molto attenti, perché ci sono stati presidenti di associazioni produttori che temono un crollo dei prezzi intorno al 10-15 per cento, senza però che i costi di produzione diminuiscano. Questo pone i produttori italiani in una morsa. Un’alternativa suggerita dall’Unione europea si basa sulla possibilità di programmare le produzioni, ma non è sufficiente, a mio parere. Bisognerà trovare forme premiali e sistema di regolamentazione dell’offerta, ispirati non a linee punitive e deprimenti, ma che permettano agli allevatori non associati ai consorzi di tutela di impostare politiche sulla redditività. Bisogna però riconoscere che l’abolizione delle quote valorizzerà la libertà d’impresa, anche con un effetto sui costi”.

Alessandro Amadei, redattore dell’Allevatore magazine: “Mi sembra verosimile ipotizzare che a livello europeo la produzione non subirà un’impennata drammatica, ma ci sarà un lieve aumento. Piuttosto, cambierà la geografia produttiva, e ci saranno aree in Europa e nella stessa Italia in cui la produzione aumenterà. Dove? Ad accelerare saranno ovviamente le zone più vocate, come la Pianura padana. Così ha ad esempio precisato con uno studio la European Dairy Farmer Association, secondo la quale nel 2020 la produzione italiana di latte si concentrerà nell’area padana, mentre si avrà una progressiva marginalizzazione delle aree che già oggi sono marginali, con un impatto negativo sulla gestione del territorio. La maggior competitività dei Paesi del cosiddetto blocco nordico ha portato l’area mediterranea e dell’Europa meridionale – Italia, Francia, Spagna e Romania – a dialogare per individuare un meccanismo di compensazione alle quote, in grado di proteggere le produzioni”. Il tema è stato trattato in modo approfondito nel corso della Fiera agricola zootecnica italiana di Montichiari, svoltasi nei giorni 15,16 e 17 febbraio.