L’iperproduzione e il consumo spinto costituiscono due pericolose patologie del nostro tempo.

Non rappresentano la vera vocazione dell’uomo, che invece dovrebbe soffermarsi a rivalutare il suo rapporto con la natura e con la terra, rimodulando il suo modello di sviluppo. Parola del filosofo Pierre Rabhi, 73 anni, algerino, figlio di un fabbro, orfano e affidato ad una coppia di francesi a soli cinque anni. Divenuto cattolico – la famiglia d’origine era musulmana – vive appieno un’esistenza fatta di sacrifici: a vent’anni è a Parigi, dove, in mancanza di diplomi (“La scuola mi ha sempre annoiato perché non rispondeva alle questioni fondamentali che mi ponevo”) comincia a lavorare in un’azienda come operaio specializzato, fino a spaccare pietre nell’Ardèche, nel sud est della Francia, come minatore. Qui, quale testimone diretto, ha modo di soffermarsi sulla condizione reale degli esseri umani nella modernità.

Quindi la scoperta dell’agricoltura biologica, opponendosi alla logica di iperproduttività applicata ai campi. Culturalmente si forma sui libri di Ehrenfried Pfeiffer e di Rudolf Steiner, applicando alla sua piccola azienda, tra l’altro in un territorio dalle difficili condizioni agronomiche, i metodi studiati: né fertilizzanti, né pesticidi, gestione dell’acqua parsimoniosa.

Ma richiama anche due classici dell’ecologismo: “Il pianeta saccheggiato” di Fairfield Osborn del 1948 e “La primavera silenziosa” di Rachel Carson degli anni Cinquanta. Oggi, con la sua “agroecologia”, è uno dei pionieri della sostenibilità ambientale ed esistenziale in Francia, esperto internazionale per la lotta contro la desertificazione, ma anche pensatore e scrittore di successo. Il suo ultimo libro, “Manifesto per la terra e per l’uomo” (Add editore, 170 pagine, 15 euro) rappresenta una summa della sua ideologia che si muove tra la denuncia delle nefandezze che ci circondano (profanazione delle terre, decadimento delle coscienze, convergenza di crisi economiche, alimentari, climatiche), causa di gravi squilibri, e i possibili rimedi per rimpossessarci del futuro, ad iniziare dal recupero del rapporto primordiale tra uomo e natura (“cambiare per non scomparire” avverte Rabhi).

Lo scrittore algerino pone la terra al centro della sua filosofia. La Terra, con la maiuscola, valutata come risorsa preziosissima, basilare, da preservare, fonte di nutrimento, ma anche componente alla quale rimandare l’intera vita dell’uomo. “Il pianeta non ci appartiene, siamo noi ad appartenergli – sintetizza. Una terra che è “sinfonia”, che respira, che ci parla. Eppure il territorio sta male proprio per colpa dell’uomo: pratiche agricole scellerate, agrichimica (fertilizzanti, pesticidi, additivi chimici), brevetti, salinizzazione dei terreni, erosione, deforestazione, perdita di biodiversità, produzione di agrocarburanti costituiscono le pratiche di un’agricoltura addirittura subordinata al petrolio e che determina ingiustizie sociali e crisi alimentari.

Ad ogni aumento dell’un per cento del prezzo delle derrate di base, ricorda Rabhi citando i dati della Fida, oltre sedici milioni di persone si ritrovano in condizioni di precarietà alimentare. “La certezza di non vivere in ristrettezze economiche addormenta gli spiriti – ammonisce lo scrittore algerino con chiare accuse all’Occidente. Un vecchio continente che si dimentica abitualmente dei 20mila bambini che muoiono ogni giorno per fame nei Paesi sottosviluppati. Nel contempo si registra un rapporto sempre più sconsiderato con gli animali, visti come fabbrica eccessiva di proteine nell’ottica del produttivismo o come ospiti non graditi e per questo condotti all’estinzione. I danni, ad esempio, provocati alle api ci si stanno torcendo contro soprattutto sul fronte dell’impollinazione naturale. Ma le conseguenze maggiori le subiamo con un’alimentazione diventata impersonale, anonima, non più stagionale, globalizzata, omologata. Contadini educati per millenni dalle leggi della natura, con il buonsenso, i ritmi giusti, la resistenza, la cognizione dei limiti, si ritrovano oggi servi di sementi ibride, di un’antropofagia strutturale che conduce al saccheggio sistematico delle risorse naturali, dagli effetti irreversibili.

L’ecologia, in sostanza, deve diventare uno stato di coscienza, dando vita ad un nuovo umanesimo in cui si recuperi la nozione di bellezza, offerta direttamente dalla natura, si oltrepassino le frammentazioni nazionalistiche dei principi universali e la tecnologia sia davvero messa al servizio del bene comune. Rabhi ha trasmesso questi valori anche ai cinque figli: una delle sue figlie ha aperto una scuola Montessori mentre tre hanno realizzato un motore ecologico. Tra i progetti che ha realizzato personalmente, spiccano quello del monastero di Salan, nel sud del Paese, dove le suore, applicando i suoi insegnamenti, sviluppano una coltivazione biologica e l’Hameau des Buis, in Ardèche, esperienza cominciata nel 2003, che raggruppa venti alloggi riuniti intorno ad una scuola e ad una fattoria. Negli anni Novanta ha creato l’associazione “Mouvement pour la Terre et l’Humanisme” per la trasmissione dell’etica e della pratica agroecologica, lanciando iniziative in Mali, Marocco e Niger, ma anche in Algeria, Benin, Mauritania, Palestina, Senegal, Togo, Tunisia.

Ha operato anche in Polonia e Ucraina, denunciando la deriva che sta prendendo un’agricoltura ancora tradizionale come quella dei Paesi dell’est a casua della globalizzazione e del consumismo. “La terra nutrice è il principio primo senza il quale nient’altro può accadere. Perché non sognare un cantiere internazionale di ricostruzione del nostro meraviglioso pianeta? Il potere è nelle nostre mani”. Parola di agricoltore.